C’è una grande isola di plastica nel Nord del Pacifico, o meglio: un ammasso di milioni di tonnellate di oggetti in plastica galleggianti (sacchetti, bottiglie, palloni…) e di infiniti frammenti di materiali sintetici in sospensione, microscopici e invisibili ad occhio nudo, che occupano una superficie pari a 5000 kmq di Oceano.

Anche se studi recentissimi – come quello condotto dalla biologa marina Miriam Goldstein, ricercatrice presso la Scripps Institution – smentiscono che la plastica sia di per sé un veleno letale per ogni specie vivente, sono però certi ed intuitivi i danni immediati che l’ingestione delle plastiche non ancora decomposte può provocare alla fauna acquatica.

Capita sempre più spesso infatti che tartarughe e mammiferi marini muoiano per soffocamento o per occlusione dell’intestino dopo aver ingoiato bustine trasparenti o luccicanti pezzi di bottiglie, che scambiano per meduse e plancton.

Mentre non si conoscono ancora gli effetti a lungo termine dell’ingresso nella catena alimentare marina – e di conseguenza umana – degli impercettibili residui polimerici dispersi nei mari della Terra.

È stato calcolato che solo il 20% dei rifiuti plastici “acquatici” proviene dagli scarti prodotti sulle navi e sulle altre imbarcazioni: l’80%, cioè la stragrande maggioranza, di questa immondizia galleggiante è evidentemente prodotta sulla terraferma.

Ecco perché, nell’incertezza sui possibili danni futuri – fra teorie oltremodo allarmistiche da un lato e le posizioni esageratamente incuranti di alcuni scienziati dall’altro – è necessario osservare alcune regole basilari per una corretta “igiene del rifiuto”, come la scrupolosa differenziazione delle materie plastiche.

Isole di plastica nei nostri mari